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Respingimento come crimine

Il mese scorso la Corte di cassazione italiana ha confermato la condanna (sospesa) a un anno di reclusione nei confronti del comandante della nave italiana Asso28. È stato condannato per due reati di abbandono per aver rimpatriato e consegnato al personale di una motovedetta libica circa 100 migranti, tra cui alcuni minori non accompagnati e donne incinte, che aveva precedentemente salvato in acque internazionali all'interno della zona SAR libica. Il caso costituisce la prima volta che un individuo è stato ritenuto penalmente responsabile per non aver adempiuto al dovere di non respingimento. Pur non esistendo nell’ordinamento italiano alcuna fattispecie specifica che sancisca la violazione del principio di non respingimento, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sua violazione possa costituire i reati di abbandono previsti dal Codice penale (art. 591) e di Codice della Navigazione (articolo 1155). Di conseguenza, il principio di non respingimento ha acquisito un ruolo nuovo nel contesto del diritto penale. Fino a poco tempo fa veniva presa in considerazione solo per escludere la responsabilità dei comandanti delle navi che l'avevano rispettata, ogni volta che erano accusati di favoreggiamento dell'immigrazione irregolare. Ora sembra emergere una nuova e ancora più ampia funzione del principio, ovvero quella di fondare la responsabilità penale di chi lo viola.

Un altro giorno, un altro respingimento in Libia

L'Asso28 era una nave di rifornimento per l'impianto petrolifero offshore Sabratha. Il 30 luglio 2018, il suo capitano ha salvato un centinaio di migranti trovati in pericolo a bordo di un gommone in acque internazionali e nella zona SAR libica. L'operazione è stata effettuata d'intesa con il personale dell'impianto petrolifero e con un ufficio cliente libico che era in servizio sulla piattaforma e ha permesso di salire a bordo dell'Asso28 senza essere stato preventivamente identificato completamente dal comandante. Ciò era in violazione del codice internazionale di sicurezza delle navi e degli impianti portuali (codice ISPS). Subito dopo il comandante della nave ha fatto rotta verso il porto di Tripoli, dove i naufraghi sono stati consegnati ad una motovedetta libica. I competenti Centri di soccorso e coordinamento libici e italiani sono stati contattati solo quando la nave di soccorso era già diretta verso la Libia, in violazione della Convenzione SOLAS modificata ( Cap. 5, Regolamento 33 ) e delle Linee guida IMO sul trattamento delle persone soccorse in mare ( n.5).

Due reati di abbandono

Il capitano della nave è stato condannato per due capi di imputazione per aver criminalizzato l'abbandono di persone in situazioni di pericolo.

L'articolo 591 del codice penale punisce chiunque, avendo in custodia una persona minore di quattordici anni, o comunque una persona incapace di provvedere a se stessa, l'abbandona in una situazione di pericolo. Secondo i giudici italiani, nel caso di specie sussistevano tutti questi elementi: i) il comandante della nave aveva il dovere di diligenza per la vita e l'incolumità fisica di tutti i passeggeri, e si considerava pertanto incaricato della loro custodia; ii) a bordo dell'Asso28 erano presenti minori di età inferiore ai quattordici anni e donne incinte, condizione quest'ultima che, secondo i Tribunali, determina una ridotta capacità di fuoriuscita da una situazione pericolosa; iii) i passeggeri erano esposti a pericolo per la loro vita e la loro integrità fisica, dato che i migranti irregolari in Libia sono sistematicamente esposti al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti, violenze di ogni tipo e perfino di essere uccisi.

L'articolo 1155 del codice della navigazione, dal canto suo, punisce l'abbandono di qualsiasi persona, anche non vulnerabile, purché qualificabile come “arbitraria”. La consegna dei migranti ai libici è stata giudicata “arbitraria” dai tribunali in quanto contraria ai doveri spettanti al comandante della nave. Ciò includeva il dovere di informare senza indugio i centri di coordinamento competenti, previsto dalla Convenzione SOLAS e dalle Linee guida IMO sul trattamento delle persone soccorse in mare, e il divieto di respingimento, presente sia nel diritto internazionale ed europeo sui diritti umani che nell'articolo 19 del Testo unico sull'immigrazione .

Per entrambi i reati di abbandono i Tribunali hanno ritenuto che il comandante della nave abbia agito sotto intento condizionato ( dolus eventualis ), poiché era consapevole dei possibili effetti collaterali delle sue azioni e ha deciso di agire comunque, accettandone il verificarsi. Secondo la Corte, il comandante della nave era consapevole che il territorio libico non è sicuro per gli stranieri irregolari, dato che la Libia non è uno Stato firmatario della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e alla luce delle molteplici segnalazioni di istituzioni e organizzazioni internazionali citate dalla CEDU nella sentenza Hirsi sentenza (§§ 35-42).

La Corte di Cassazione ha inoltre respinto l'invocazione del comandante della giustificazione dell'esecuzione di un ordine legittimo, prevista dall'articolo 51 del codice penale. Non ha considerato le comunicazioni con il doganiere libico in servizio presso l'impianto petrolifero fonti di ordini legittimi. Essa ha invece sostenuto che solo se l'ordine fosse stato emesso da un centro di coordinamento dei soccorsi esso avrebbe potuto giustificare il comportamento del comandante della nave. Questa conclusione è tuttavia discutibile. Dopotutto, un ordine di sbarcare i migranti privi di documenti in Libia sarebbe incompatibile con l’obbligo legale di sbarcare le persone soccorse in un luogo sicuro. In quanto tale, non può trattarsi di un “ordine legittimo”, al fine di fondare la giustificazione dell'adempimento di un ordine legittimo. Al contrario, tale ordinanza potrebbe estendere la responsabilità penale all'ufficiale emittente, in quanto complice nella realizzazione degli stessi reati di abbandono di persone.

La questione della giurisdizione italiana: solo un O biter Dictum ?

La Corte si è basata anche sulla sentenza Hirsi della Corte EDU in merito alla questione della giurisdizione italiana per l'operazione di ricerca e salvataggio effettuata dal comandante della nave. Ha ritenuto che il comandante di una nave privata, quando adempie all'obbligo di soccorrere persone trovate in pericolo in acque internazionali, agisce come un agente dello Stato italiano. Ne consegue che, nella misura in cui il comandante esercita il controllo e l'autorità sui naufraghi, su tali soggetti si estende la giurisdizione extraterritoriale dello Stato ai sensi dell'articolo 1 CEDU, con il conseguente obbligo di agire nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali sanciti dalla CEDU, compreso il divieto di esplosioni collettive.

Questo ragionamento è curioso perché il problema della giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della CEDU riguarda l’eventuale responsabilità internazionale dello Stato per violazione o mancata tutela dei diritti fondamentali (vedi De Vittor, Starita 2019 ). Ma in questo caso era in gioco il diverso problema della responsabilità penale del singolo . A tal fine era sufficiente il fatto che l'imbarcazione battesse bandiera italiana, stante il principio del territoire flottant , recepito dall'articolo 4 del codice penale italiano. Il ragionamento della Corte è stato quindi forse motivato dal desiderio di rafforzare la sua tesi precedente secondo cui la consegna dei migranti ai libici era “arbitraria” nella misura in cui era incompatibile con la CEDU. Affermando l'applicabilità dei divieti di respingimento e di espulsione collettiva della CEDU, come stabilito nella sentenza Hirsi, la Corte di Cassazione ha inteso fornire i parametri normativi alla luce dei quali l'abbandono di migranti presso la guardia costiera libica potrebbe qualificarsi come “arbitrario”, e quindi penalmente rilevante ai sensi dell'art. 1155 del Codice della Navigazione.

La crescente rilevanza del non-refoulement nei casi di diritto penale

La sentenza Asso28 è degna di nota non perché abbia ribadito – ancora una volta – che la Libia non è un porto sicuro per i migranti privi di documenti soccorsi nel Mar Mediterraneo; e che quindi il loro ritorno in quel Paese costituisce una violazione del divieto di respingimento. Questi risultati e conclusioni, infatti, dovrebbero ormai essere evidenti sulla base di numerosi rapporti di osservatori indipendenti e istituzionali, tra cui le Nazioni Unite ( Rapporto 2018 , Rapporto 2022 , Rapporto 2023 ). Piuttosto, ciò che rende la sentenza Asso28 una novità nel panorama della giurisprudenza in materia di frontiere e diritto penale è la rilevanza che essa assegna, per la prima volta, alla violazione del principio di non respingimento .

Finora il principio di non respingimento è servito come giustificazione per commettere reati contro lo Stato. Ad esempio, nel noto caso Rackete , la responsabilità del comandante della nave Sea Watch 3 per i reati di favoreggiamento dell'immigrazione irregolare e di resistenza a pubblico ufficiale era stata esclusa perché il suo ingresso forzato nel porto di Lampedusa, in violazione delle norme L'ordine della guardia costiera italiana rientrava nel suo dovere di salvare le persone trovate in pericolo in mare. Successivamente, nel caso Vos-Thalassa , è stata esclusa la responsabilità dei medesimi reati nei confronti dei migranti che si erano opposti aggressivamente alla decisione del capitano di riportarli in Libia, ritenendo che la loro condotta costituisse legittima difesa (propria e di altri naufraghi) contro il pericolo di essere ingiustamente respinti.

Ciò che Rackete e Vos-Thalassa hanno in comune è che il rispetto del principio di non respingimento giustificava rispettivamente il capitano della nave e i migranti, che altrimenti sarebbero stati condannati per i citati reati contro lo Stato. Nel caso Asso28 , invece, la accertata violazione del principio di non respingimento ha costituito per la prima volta la base di una condanna penale per reati contro la persona. Questo cambio di prospettiva è particolarmente significativo perché si accompagna a una rivoluzione nella funzione del diritto penale: invece di essere utilizzato come strumento per combattere coloro che sono (erroneamente) considerati una minaccia all’integrità dei confini, esso si pone ancora una volta, in maniera più consona alla sua tradizionale vocazione, come strumento di tutela dei diritti fondamentali quali il diritto alla vita, all'integrità fisica e alla libertà personale.

Riportare il diritto penale al suo scopo e al suo scopo?

Finora la “ crimmigrazione ”, ovvero la fusione del diritto dell'immigrazione e del diritto penale, è stata uno degli ambiti dei cosiddetti crimini artificiali (o mala quia proibita , in contrapposizione a mala in se ). Con questo intendo i reati che non hanno dimensione naturale (come, ad esempio, l'omicidio e le lesioni personali), ma sono frutto esclusivo di una creazione legislativa, che punisce le violazioni amministrative con sanzioni penali. Questa strumentalizzazione del diritto penale è stata oggetto di molte critiche, non solo per il suo impatto umanitario negativo, ma anche per la sua inefficacia, dato che la minaccia di una sanzione penale non ha praticamente alcun effetto deterrente sui flussi irregolari e sulle reti di trafficanti. Viceversa, sanzionare la violazione del divieto di respingimento non ha nulla di artificioso. Si tratta piuttosto di uno strumento per reprimere comportamenti che mettono in pericolo i più alti diritti fondamentali delle persone, che sono quelli tipicamente tutelati dal diritto penale, e quindi somiglia più alla mala in sé . In altre parole, criminalizzare il respingimento significa sanzionare una categoria di comportamenti che generalmente danno luogo a eventi estremamente dannosi come la morte, lesioni personali, violenza sessuale e privazione della libertà personale.

Pensare oltre Asso28

Certo, la risposta penalistica fornita dall'ordinamento italiano nel caso Asso28 non appare del tutto soddisfacente, poiché l'imputato è stato condannato ad una pena detentiva talmente bassa da essere compatibile con la sua sospensione. La pena sarebbe stata significativamente più elevata (e non sospensiva) se fossero state applicabili le circostanze aggravanti previste al terzo comma di entrambi i reati di abbandono. Tuttavia, tali circostanze si applicano solo quando, come conseguenza involontaria dell’abbandono, la vittima muore o subisce lesioni. Non c'erano prove sufficienti per stabilirlo, anche a causa della mancata identificazione dei migranti da parte dello stesso capitano.

In prospettiva, andrebbe valutata la possibilità di criminalizzare, mediante un nuovo reato specifico, la violazione intenzionale del divieto di respingimento . Considerato l'alto rango dei diritti fondamentali tutelati dal divieto (vita, integrità fisica, asilo ecc.), la previsione di sanzioni penali contro chi agisce intenzionalmente in violazione di esso appare pienamente conforme al principio dell'ultima ratio . Tale proposta richiede ovviamente ulteriori indagini, tenendo presente che difficilmente l’introduzione del reato di “refoulement intenzionale” sarà nell’agenda della politica penale degli Stati membri dell’UE nei prossimi anni.


Questa è la traduzione automatica di un articolo pubblicato su Verfassungsblog all’URL https://verfassungsblog.de/refoulement-as-a-crime/ in data Tue, 02 Apr 2024 14:52:11 +0000.